Scriviamo per esprimere il nostro disappunto di fronte all’articolo, a firma del professor Walter Lapini e intitolato “Quei superfinanziamenti che sconvolgono gli atenei”, apparso nell’edizione del 4 gennaio 2020 del Corriere della Sera.
Gentile Direttore,
Siamo un gruppo di ricercatori e docenti universitari italiani che lavorano in vari paesi del mondo. Apparteniamo a diverse discipline dell’ambito umanistico e sociale, di quello biomedico, di quello delle scienze fisiche, naturali e dell’ingegneria. Ci troviamo a diversi stadi della nostra carriera. Alcuni di noi hanno ricevuto finanziamenti da programmi di ricerca europei, primariamente lo European Research Council (ERC) e il Marie Skłodowska-Curie. Le scriviamo per esprimere il nostro disappunto di fronte all’articolo, a firma del professor Walter Lapini e intitolato “Quei superfinanziamenti che sconvolgono gli atenei”, apparso nell’edizione del 4 gennaio 2020 del Corriere della Sera.
Solitamente è un bene quando la stampa nazionale tratta questioni legate al finanziamento della ricerca e dell’università in Italia, in quanto la cronica mancanza di fondi e l’inadeguatezza del sistema di reclutamento universitario sono tra i problemi principali che affliggono l’università italiana. In questo caso i toni e i contenuti dell’articolo ci lasciano però sgomenti per l’inspiegabile livore riversato su quei ricercatori giovani e meno giovani capaci di accedere a finanziamenti internazionali prestigiosi e molto competitivi. Simili posizioni, alimentando un clima di sospetto e antagonismo, rischiano di vanificare gli sforzi dei molti che, in Italia e dall’estero, fanno del loro meglio per migliorare il sistema e valorizzare l’immagine dell’Università, anche come motore dello sviluppo economico e sociale della nazione. Nella narrativa dell’articolo addirittura il successo nell’ottenere finanziamenti europei è quasi una colpa anziché un merito. Progetti su temi di grande impatto sociale, valutati con rigore, trasparenza e competenza, seppur entro i limiti del giudizio umano, diventano esempi di mercimonio della ricerca o vengono sminuiti alla stregua del biglietto vincente di una lotteria, come se capacità, impegno e perseveranza non contassero nulla. Soprattutto si ignora, tradendo una miopia che purtroppo non ci sorprende, che oltre a portare lustro ad un ateneo i finanziamenti europei generano ritorno anche per il sistema Italia. Un paese che, ricordiamolo, perde ogni anno migliaia di giovani altamente qualificati a beneficio di paesi stranieri.
Ci chiediamo come sia possibile definire “cani sciolti” ricercatori che hanno acquisito un’importante esperienza internazionale in atenei ed istituti di ricerca o imprese di altri paesi e che hanno rifiutato di conformarsi alle regole clientelari che talvolta vigono nell’accademia italiana. Ci sembra un’espressione inaccettabile, perché priva del rispetto che la loro professionalità merita, e indicativa di una profonda avversione verso chi cerca l’indipendenza accademica con passione e impegno. Altrettanto inaccettabile è l’idea che vi siano persone che “aspettano in fila” (i cosiddetti precari della ricerca), e che qualcuno dall’alto li faccia accedere al sistema secondo il proprio libero arbitrio. Questo è uno dei capisaldi del baronaggio, dei cui residui l’Università italiana dovrebbe liberarsi al più presto.
L’articolo in questione solleva una critica al modo in cui sono strutturati i programmi europei di supporto alla ricerca. Questa critica può essere in parte condivisibile ed ovviamente ogni modello è migliorabile. Il problema principale però non viene toccato dall’autore e consiste nel fatto che il fine ultimo di questi programmi viene in Italia malinteso. In un contesto di sensibile sotto-finanziamento della ricerca nel nostro paese, i bandi dell’Unione Europea vengono erroneamente visti come l’unica fonte di risorse o quasi. Ricordiamo che questi fondi sono pensati come un complemento al finanziamento nazionale della ricerca, mirato a fornire un contributo addizionale a progetti particolarmente innovativi, caratterizzati da collaborazione e mobilità internazionali. La scarsità delle risorse a disposizione dei ricercatori attivi in Italia, a differenza che in altri paesi, non è di certo responsabilità dell’Unione Europea, né tantomeno dei vincitori di un grant ERC o di una borsa Marie Skłodowska-Curie ma è figlia dell’assenza di visione strategica della ricerca e dell’innovazione a livello di classe dirigente, con un effetto ancora più marcato sulle discipline umanistiche a cui l’intervento di Lapini faceva riferimento.
Gentile direttore, la mobilità nel mondo della ricerca non è un male: è cosa fisiologica che contribuisce alla circolazione delle conoscenze. È diventata sicuramente eccessiva in alcuni ambiti, ma l’anomalia italiana consiste nel non favorire il rientro di chi ha maturato esperienza di alto profilo all’estero, nel presentare una scarsissima mobilità interna, e soprattutto nel non attrarre talenti dall’estero, italiani o meno. Ciò contribuisce allo squilibrio di competenze tra i diversi atenei distribuiti sul nostro territorio e fra gli atenei esteri e quelli italiani. Siamo ormai abituati a lavorare in paesi dove lo spostarsi da un istituto all’altro viene incoraggiato, dove l’avanzamento di carriera non avviene (solo) per anzianità. È dunque quasi doloroso sapere che sì, i ricercatori italiani sono apprezzati e ben voluti in giro per il mondo ma se ricercatori, di qualunque nazionalità essi siano, volessero o dovessero venire in Italia dall’estero, nonostante le loro capacità e i loro curricula, ad accoglierli troverebbero un sistema nel suo insieme immobile e chiuso, che guarda con diffidenza (se non con il disprezzo tradito dall’articolo) e rifiuta coloro i quali non sono stati al proprio posto a “fare la fila” al servizio di chi, prima di loro, ha fatto lo stesso.
In ultima analisi, pur comprendendo la frustrazione di chi deve costantemente fare i conti con un sistema disfunzionale e impoverito di risorse (finanziare ed umane) che contribuisce ad una “guerra tra poveri” alla quale noi non vogliamo prendere parte, non possiamo accettare i toni dell’intervento del collega apparso sul vostro giornale e l’insensata tensione verso chi è estraneo al “sistema”. Per essere chiari, “fare la fila” come unico meccanismo per accedere alla carriera accademica in Italia, oltre che legalmente non permesso, non è moralmente accettabile, non è nell’interesse di un’Università sana, e non può essere normalizzato. Incoraggiare e premiare originalità e indipendenza è invece nell’interesse di tutti quelli che amano lavorare in un sistema universitario di qualità e più in generale dell’intero paese.
Anita Lavorgna, Professoressa Associata di Criminologia, Universita’ di Southampton (Regno Unito)
Gabriele Malengo, Vicepresidente Associazione AIRIcerca; Head of Flow Cytometry and Imaging Facility, Max Planck Institute for Terrestrial Microbiology, Marburg (Germania).
Giulia Piccolino, Lecturer in Politica e Relazioni Internazionali, Loughborough University, (Regno Unito)
Federico Aletti, Assistant Project Scientist, University of California San Diego (USA); Marie Curie Alumnus
Vladimir Carli, Professore Associato di Pschiatria, Karolinska Institute, Stoccolma, (Svezia)
Angela Bellia, Marie Skłodowska-Curie Researcher, Consiglio Nazionale delle Ricerche, (Italia)
Cristina Maracci, Research fellow, Max Planck Institute for Biophysical Chemistry, Göttingen, (Germania)
Elisa Dell´Aglio, Segretaria Associazione AIRIcerca; Post-Doctoral Research Fellow, BF2I laboratory, Institut National de la Recherche Agronomique (INRA), (Francia)
Complimenti agli autori. Lettera/risposta eccelente!