di Elisa Dell’Aglio
Revisionato da Damiano Martignago e Federico Forneris
Impariamo a conoscere questo organismo, di cui si è parlato e si parla molto a causa delle epidemie in corso in diverse nazioni europee. Lo scopo di questo articolo è di descrivere al grande pubblico i fatti scientifici di base che possono permettere di comprendere la malattia e di valutare l’attendibilità delle fonti giornalistiche, senza entrare nel merito delle strategie di contenimento né affrontare teorie complottistiche.
In principio era la vite
Stati Uniti, 1892. Newton Pierce, fitopatologo del Dipartimento di Agricoltura Statunitense (USDA) descrive per la prima volta una malattia che attacca severamente i vigneti della California meridionale [1].
Diagnosticare una malattia vegetale o identificarne una nuova non è semplice: nelle piante i sintomi più comuni, come l’ingiallimento delle foglie o la loro caduta, possono essere dovuti a cause molto diverse: carenze nutrizionali, virus, batteri, funghi o piccoli animali. Ma la malattia della vite californiana descritta da Newton Pierce, che prenderà il suo nome, era particolare perché dopo una prima fase blanda, con perdita di vigore e necrosi marginale delle foglie, l’intera pianta veniva condotta rapidamente a disseccamento.
L’impatto della “malattia di Pierce” fu subito notevole, in quanto i vigneti, che erano stati impiantati in California all’inizio del diciannovesimo secolo, costituivano una delle principali risorse economiche della zona. Dopo la prima emergenza, la malattia continuò a ripresentarsi con ondate regolari, costringendo i viticoltori a spostare le piante verso nord e ad allontanarsi dai corsi d’acqua, in quanto il caldo e l’umidità favorivano lo sviluppo dei sintomi. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso la situazione è ulteriormente peggiorata, tqnto che oggi la malattia grava sull’economia della California per più di cento milioni di dollari all’anno.
Nel corso del Novecento, successivamente alla descrizione della malattia di Pierce, altre malattie con un decorso simile furono descritte in tutto il continente americano: la clorosi variegata degli agrumi (Citrus Variegated Chlorosis Disease o CVC), concentrata soprattutto in Brasile; la falsa pesca (phony peach disease); la brusca (leaf scorch) delle drupacee (mandorlo) e di essenze forestali (aceri); l’avvizzimento (wilt) della pervinca [2] Per esempi di sintomi, vedere la Fig. 1).

Figura 1 – Sintomatologia di varie specie vegetali infettate da vari ceppi di Xylella fastidiosa. Le immagini sono tratte dall’EPPO Global Database.
Due secoli dopo gli studi di Pierce, i fitopatologi hanno iniziato a osservare sintomi analoghi anche in piante del continente europeo, dapprima sugli ulivi del Salento [3], e successivamente su altre specie coltivate, ornamentali e spontanee della flora mediterranea. La malattia dell’olivo, diagnosticata per la prima volta in Puglia nell’estate del 2013, è stata chiamata Olive Quick Decline Syndrome in inglese, o Complesso del Disseccamento Rapido dell’Olivo – CoDiRO in italiano. In alcune regioni, come la Corsica, la Costa Azzurra e le Baleari, i danni sono contenuti. In Puglia, invece, ci troviamo di fronte a un’emergenza fitosanitaria comparabile, per gravità ambientale ed economica, a quella delle viti californiane.
Batterio o virus?
Le prime ricerche sulle cause della malattia di Pierce vennero eseguite negli anni Quaranta del secolo scorso, quando una grave ondata di contagio mise in ginocchio la California, stimolando la ricerca scientifica.
I progressi furono però ostacolati dalla difficoltà di isolare l’agente causale della malattia. Era chiaro che l’infezione si propagava in maniera molto rapida e utilizzando come “mezzo di trasporto” da pianta a pianta degli insetti che si nutrivano della linfa grezza delle piante: sia la rapidità di diffusione sia l’uso di insetti vettore erano caratteristiche tipiche di malattie virali. La convinzione di trovarsi di fronte a un virus portò fuori strada gli scienziati per molti decenni (Fig. 2A). Fu solo nel 1971 che D. L. Hopkins e collaboratori riuscirono a curare alcune pianticelle di vite mediante un antibiotico, la tetraciclina , dimostrando quindi che si doveva andare alla ricerca di un batterio, non di un virus [4]. Nel 1973 gli stessi autori, contemporaneamente a Goheen e colleghi [5], osservarono mediante microscopia elettronica la presenza di batteri nei vasi linfatici di piante infette [6] (Fig. 2B, immagini pubblicate dagli stessi autori di [7] l’anno seguente).

Figura 2 – La Xylella fastidiosa è un batterio. (A) Questa è probabilmente una delle prime fotografie di Xylella fastidiosa, all’interno di vasi linfatici della vite. È stata scattata intorno al 1940, quando ancora si pensava che la malattia di Pierce avesse origine virale. Per questo, i batteri e i loro biofilm sono all’epoca passati inosservati. Da Anatomic Effects of the Viruses of Pierce’s Disease and Phony Peach. Esau, Hilgardia, 1948. (B) Xylella fastidiosa all’interno di vasi linfatici di vite. Fotografie ottenute mediante microscopia elettronica (Ultrastructural Study of Pierce’s Disease Bacterium in Grape Xylem Tissue. Hilton H. Mollenhauer, Donald L, Hopkins, Journal of Bacteriology 1974). Le parti traslucide sono costituite dal biofilm che tiene uniti i batteri all’interno dei vasi. Le barre nere corrispondono a 1 μm. (C) Immagini ravvicinate del batterio Xylella fastidiosa isolato da piante infette. La barra nera corrisponde a 0,5 μm [2].
Mistero risolto? Non ancora. Per essere sicuri che i batteri osservati fossero i responsabili della malattia di Pierce occorreva identificarli, isolarli, farli propagare (coltivarli) e dimostrare che erano in grado di infettare altre piante della stessa specie causando gli stessi sintomi. E, infine, re-isolarli ancora una volta. Nel 1974 Auger e colleghi [7] proposero che i colpevoli fossero batteri lattobacilli che avevano isolato da insetti vettore in grado di propagare la malattia. I numerosi tentativi di replicare questi studi (pubblicati sulla prestigiosa rivista Science) non ebbero però successo.
Finalmente, quattro anni dopo, Davis e colleghi [8] pubblicarono, di nuovo su Science, l’isolamento di batteri a bastoncello da estratti di piante di vite infestate dall’insetto vettore Hordnia circellata. A partire da queste colture, gli scienziati infettarono artificialmente altre viti e dimostrarono che l’86% delle piante infettate con quel batterio (ma nessuna di quelle di controllo, “infettate” con acqua sterile o con altri batteri) sviluppava i sintomi . Gli scienziati dimostrarono inoltre che la trasmissione poteva anche avvenire attraverso insetti sterilizzati e poi ri-esposti al batterio e che lo stesso batterio era in grado di infettare anche i mandorli, dando origine all’“almond leaf scorch disease”.
L’ulteriore ritardo di cinque anni dalla prima osservazione dei batteri alla loro identificazione e alla prova che fossero proprio loro gli agenti causali della malattia fu dovuto soprattutto alle difficoltà nel coltivarli. Solo Davis e colleghi riuscirono a mettere a punto delle condizioni di crescita adatte. Eppure, persino in quelle condizioni ottimizzate sarebbe stato facile gettare la spugna: le prime colonie di batteri apparvero infatti solo dopo alcune settimane dall’inizio della coltura. Come confronto, è utile ricordare che il batterio più comunemente usato in laboratorio, Escherichia coli, forma colonie in meno di un giorno!
“Fastidiosa” in tutti i sensi
Nel 1987 J. M. Wells e colleghi [2] studiarono la morfologia e il metabolismo dei batteri di Davis, isolandoli dalla linfa grezza di varie specie vegetali (come mandorlo, prugno e pesco).Tutti avevano una forma simile (a bastoncello) di 0,25-0,35 µm di larghezza e 0,9-3,5 µm di lunghezza. Tutti erano isolabili sullo stesso terreno di coltura e riconducibili allo stesso tipo di batteri gamma, Gram-negativi (Fig. 2C). Poiché questi batteri erano molto diversi da tutti quelli noti sino ad allora, gli scienziati preferirono assegnarli a un nuovo genere che chiamarono Xylella, a causa del fatto che, nelle piante, i vasi della linfa grezza in cui i batteri si rintano vengono anche detti “vasi xilematici”.
Per ottenere un nome scientifico era però ancora necessario affiancare a Xylella un “attributo”. Wells e colleghi trassero ispirazione dalle numerose difficoltà che i loro predecessori avevano dovuto superare per coltivare il batterio e lo chiamarono quindi schizzinoso, o in latino, fastidiosus. Da qui, Xylella fastidiosa.
Le difficoltà nella coltivazione continuano a rallentare la ricerca su X. fastidiosa anche ai giorni nostri. La Dott.ssa Annalisa Giampetruzzi del Dipartimento di Scienze del Suolo della Pianta e degli Alimenti (Università degli Studi di Bari Aldo Moro) e il Dott. Donato Boscia dell’Istituto di Protezione Sostenibile delle Piante del CNR di Bari, il polo di eccellenza per la ricerca su X. fastidiosa in Italia, lo confermano: “Sebbene ormai le condizioni di coltura si siano raffinate e i tempi di attesa ridotti, servono ancora numerosi giorni per ottenere delle colonie in piastra e un savoir faire che si deve acquisire sul campo. Per questo, quando nel 2013 ci siamo trovati per la prima volta di fronte a X. fastidiosa, la nostra collega, la Dott.ssa Maria Saponari, si subito è recata in Brasile in modo da apprendere da colleghi esperti tutti i segreti per l’isolamento, la coltivazione e il mantenimento in laboratorio di X. fastidiosa. Non potevamo sperare di cavarcela improvvisando ”. La Dott.ssa Marie-Agnès Jacques, Direttrice di Ricerca all’Institut de Recherche en Horticulture et Sémences di Angers, Francia, aggiunge: “Le modalità di coltivazione dipendono anche dalla sottospecie. X. fastidiosa sottospecie fastidiosa, responsabile della malattia di Pierce, è forse la più semplice da coltivare, mentre altre sottospecie, tra cui la pauca, responsabile del disseccamento rapido dell’olivo, è tra le più ostiche. A questo si aggiunge il fatto che l’efficienza di isolamento da tessuti vegetali varia a seconda della pianta infetta e dalla quantità di batteri presenti. Ciò contribuisce a rendere ancora più difficile la diagnosi della malattia, soprattutto nelle prime fasi dell’infezione”.
X. fastidiosa sarà anche schizzinosa nelle sue preferenze nutrizionali, ma in natura di certo ha evoluto una straordinaria capacità adattativa. Con più di 300 specie vegetali ospiti è infatti un’eccezione tra i batteri dei vasi della linfa grezza che di solito sono molto più limitati nel loro spettro infettivo ed è per questo inserita dalla normativa europea tra gli organismi da quarantena. Le prime fasi dell’infezione da X. fastidiosa sono quasi sempre asintomatiche e quando la malattia è conclamata è spesso tardi per mettere in atto misure di contenimento. In America i danni principali provocati da Xylella sono localizzati soprattutto in California e in Brasile, ma il batterio è stato rilevato in molte altre zone degli USA e perfino in Canada. In Europa, l’infezione per ora è confinata in alcune zone meridionali (Italia, Spagna, Provenza e Corsica) ma il suo principale vettore (Philaenus spumarius) è diffuso in tutto il continente [9].Tutti questi aspetti rendono Xylella “fastidiosa” non solo per i ricercatori che devono studiarla e coltivarla ma anche per gli agricoltori di molte aree del globo.
Un nome, dunque, particolarmente azzeccato, anche per chi, come i bravi di Don Rodrigo, non ne sa di latino (Piccola parentesi. Nel 2016, a Taiwan, è stata identificata dall’albero della pera asiatica una nuova specie di Xylella che è stata nominata, con meno fantasia, Xylella taiwanensis [10].)
Cherchez l’insecte
Già nell’Ottocento (quando ancora si pensava a una malattia virale) i fitopatologi avevano scoperto che il passaggio della malattia di Pierce da una pianta all’altra avveniva attraverso alcuni insetti, in particolare quelli noti come “cicaline”. In California la più comune era Draeculacephala minerva. Negli anni Novanta un nuovo insetto vettore, Homalodisca vitripennis, si diffuse in California, rendendo ancora più grave la malattia di Pierce e scatenando in parallelo anche un’epidemia di “leaf scorch disease” nei mandorli. In Italia, il vettore più temuto, Philaenus spumarius, è volgarmente noto come “sputacchina”.
Le cicaline e le sputacchine si nutrono in una maniera simile a quella che le zanzare usano per succhiare il sangue delle loro vittime. Con il loro rostro, bucano la superfici di foglie o germogli e aspirano la linfa grezza. Se nel ramo o nella foglia sono presenti dei batteri, come ad esempio X. fastidiosa, questi possono essere trascinati nel canale digerente dell’insetto insieme alla linfa.
Dell’interazione tra X. fastidiosa e gli insetti sappiamo ancora molto poco, ma una cosa è certa: l’intestino di un insetto che succhia linfa è più simile al tornado che spazza via la casa di Doroty nel Mago di Oz che alla reggia di Versailles. X. fastidiosa pare però in grado di rintanarsi in zone dell’intestino chiamate precibario e cibario [11], dove forma un biofilm, ovvero una pellicola appiccicosa di zuccheri che consentirebbe ai batteri di attaccarsi saldamente alle pareti dell’intestino e gli uni agli altri, restando quasi immuni alle turbolenze circostanti. Qui i batteri si nutrono della chitina [12] presente sulla superficie dello stomaco dell’insetto e formano una piccola colonia. Del tutto ignaro di avere ospiti, l’insetto continua a spostarsi da una pianta all’altra con il suo carico di batteri, finché, sfruttando i moti vorticosi dell’intestino durante un successivo pasto, alcuni batteri si staccano dall’intestino e vengono trasferiti nella linfa grezza di una nuova pianta.
Nel primo periodo di vita nella pianta, i batteri si muovono liberi e in maniera erratica nei vasi. Quando la loro concentrazione inizia ad aumentare, però, essi tendono nuovamente ad aggregarsi e a formare placche di biofilm che diventano sempre più grandi, fino a ostruire i vasi. Come l’insetto, anche la pianta è all’inizio ignara del’infezione in corso e per questo di solito non mette in atto meccanismi di difesa. Questo stato di apparente salute fa sì che cicaline e sputacchine continuino a cibarsi di essa, aumentando la probabilità di propagare l’infezione. Solo in un secondo momento la pianta reagisce: per limitare la circolazione dell’insetto, le cellule dei vasi linfatici colonizzati producono delle estroflessioni di gomme e tilosio (uno zucchero) – un fenomeno che isola i batteri ma aggrava ancora di più l’ostruzione dei vasi già causata dal biofilm di X. fastidiosa. La pianta condanna così alcune sue parti (foglie e rami) al disseccamento per mancanza di apporto idrico, nel tentativo di difendersi dall’avanzata dell’infezione ormai in atto. Le varietà di piante più suscettibili a X. fastidiosa sono quelle che impiegano più tempo a orchestrare una risposta immunitaria e in cui questa risposta è poco efficace. In questi casi, le condizioni peggiorano rapidamente, finché tutta la pianta secca e muore.
Il genoma di Xylella: molte risposte ma poche piste
Dato il suo impatto economico, X. fastidiosa è il primo patogeno vegetale di cui si sia sequenziato il genoma. Il primo report, apparso su Nature nel 2000 e realizzato da Simpson e colleghi [13], riguardò il ceppo brasiliano patogeno degli agrumi e fu seguito pochi anni dopo da quello della vite californiana [14].
Da allora molti altri ceppi, associati a diverse specie di piante, sono stati sequenziati, in particolare quello del genoma del ceppo CoDiRO ST53 salentino, di cui in CNR di Bari rilasciò una prima bozza nel 2015 [15], seguita dalla versione completa nel 2017 [16]. In quell’occasione il ceppo CoDiRO fu anche ribattezzato “ceppo De Donno” (dal nome del proprietario dell’olivo su cui si effettuarono le analisi di conferma).
Le informazioni raccolte hanno permesso di suddividere X. fastidiosa in varie sottospecie: multiplex, pauca, fastidiosa, sandyi, morus e tashke. X. fastidiosa sottospecie fastidiosa è, tra le altre cose, responsabile della malattia di Pierce mentre pauca è quella del CoDiRO, la malattia del disseccamento dell’olivo. Secondo i risultati delle analisi genetiche, la sottospecie pauca potrebbe essere arrivata in Europa veicolata da piante di caffè costaricane infette [17] che in Europa vengono utilizzate come piante ornamentali.
Dalle analisi genomiche si è appurato che X. fastidiosa ha molto in comune con batteri del genere Xanthomonas. Anche Xanthomonas colonizza i vasi della linfa grezza ma, a differenza di X. fastidiosa, è in grado di infettare autonomamente nuove piante penetrando attraverso l’epidermide delle foglie, senza la necessità di passare attraverso insetti vettore. Le similarità fra i genomi di X. fastidiosa e Xanthomonas sembrano giustificate sia dalla comune origine evolutiva sia dalle simili abitudini ecologiche, anche se lo spettro infettivo di X. fastidiosa è molto più esteso e il suo genoma è lungo quasi la metà di quello di Xanthomonas.
Come fa un organismo “semplificato” ad essere addirittura più infettivo e adattabile del suo “cugino” più complesso (Xanthomonas)? Una prima risposta risiede nella modalità di propagazione di X. fastidiosa. Essa infatti passa, quasi indisturbata, dallo stomaco degli insetti ai vasi della linfa grezza, che sono cellule cave morte e quindi quasi totalmente inerti. In nessun momento X. fastidiosa entra in contatto con l’ambiente esterno. Xanthomonas e altri patogeni della linfa grezza, che non utilizzano gli insetti come vettori, sono invece costretti a penetrare all’interno di una nuova pianta dall’epidermide (superficie) delle foglie, la zona della pianta in cui sono maggiormente concentrate le difese immunitarie. Questo potrebbe aver permesso a X. fastidiosa di adattarsi senza difficoltà a piante differenti, anche mai incontrate, e al contempo potrebbe aver portato alla perdita di tutti i geni necessari a controbattere le difese immunitarie vegetali.
Il sequenziamento del genoma ha svelato che X. fastidiosa è priva dei geni per la produzione del “sistema di secrezione di tipo III”, un complesso proteico presente nelle membrane della maggior parte dei batteri e che le piante hanno imparato a riconoscere come sintomo di un’infezione in corso. Inoltre, una delle principali molecole batteriche riconosciute dalle piante, il lipopolisaccaride che si trova sulla parete dei batteri, in X. fastidiosa presenta modificazioni biochimiche su una porzione detta “antigene O”, che ne ritarda il riconoscimento da parte della pianta anche quando l’infezione comincia a propagarsi. Entrambe queste caratteristiche contribuiscono a spiegare le ragioni per cui X. fastidiosa rimane “invisibile” alla pianta così a lungo dopo l’infezione.
In ultimo, gli scienziati hanno identificato nel genoma due sistemi di quorum sensing. Il quorum sensing è un meccanismo di segnalazione molecolare che permette ai batteri all’interno di colonie di “contarsi” e quindi modificare il proprio stile di vita a seconda del numero di individui. Un primo quorum sensing (conservato anche in Xanthomonas) regola la capacità dei batteri di formare un biofilm protettivo all’interno dello stomaco degli insetti. Questo permette loro di replicarsi fino a raggiungere una popolazione consistente e in grado di infettare nuove piante. In Xanthomonas e X. fastidiosa il sistema utilizza i geni chiamati RPF, che regolano la produzione e il riconoscimento di molecole lipidiche segnale (per X. fastidiosa sottospecie fastidiosa è probabilmente l’acido 12-metil tetradecanoico [18]). Si è più volte appurato che batteri non più in grado di rilevare i lipidi segnale nell’ambiente non riescono a contarsi, il che limita la loro diffusione attraverso gli insetti. Il secondo meccanismo di quorum sensing detto phoP/phoQ regola invece il passaggio da una crescita in sospensione nei vasi della linfa grezza alla formazione di placche sui vasi delle piante, che comprendono sia adesine sia polisaccaridi prodotti dai geni gum. Cicli di adesione e distacco, accompagnati dalla degradazione della parete cellulare vegetale, sarebbero responsabili della colonizzazione di aree sempre più estese dei vasi della linfa grezza.
Per riassumere, il sequenziamento del genoma di X. fastidiosa ha permesso di conoscere meglio la sua origine, le sue capacità di adattamento e le sue proprietà biochimiche. Purtroppo però tutta questa mole di dati non è attualmente sufficiente per ideare misure di contenimento efficaci. Anzi, ha messo ancora di più in luce le potentissime armi di questo straordinario batterio.
I progressi della ricerca scientifica contro il CoDiRO
Attualmente, X. fastidiosa in Europa è stata rinvenuta in Italia, in Corsica, Costa Azzurra, Spagna, Portogallo e nelle Baleari. Altri avvistamenti hanno interessato ad esempio l’Olanda e il Belgio ma le piante sono state identificate e distrutte prima che la malattia potesse propagarsi.
“In molte aree europee, come Corsica e Spagna, per ora è presente principalmente la varietà multiplex, che attacca soprattutto piante ornamentali. In Puglia, invece, a causa dell’alta densità di olivi, con copertura erbacea e vegetazione che favorisce lo sviluppo dei vettori e ne limita le capacità di controllo [19], l’emergenza sanitaria ed economica è di ben altro livello.”, riporta la Dott.ssa Jacques.
Come accaduto negli Stati Uniti, anche in Europa la ricerca fitosanitaria è stata incoraggiata a lavorare su X. fastidiosa sulla base di una necessità contingente dovuta all’epidemia in corso, cosa che ha portato alla quasi totale “conversione” di laboratori di ricerca che prima si dedicavano soprattutto o esclusivamente ad altri argomenti (come la virologia della vite e piante da frutto al CNR di Bari, e Xanthomonas all’Università di Angers, in Francia).
I fondi per la ricerca universitaria su X. fastidiosa in Europa sono soprattutto pubblici, mediante vari progetti regionali e due progetti europei coordinati dal CNR di Bari (POnTE e XF-Actors) che in totale coinvolgono decine di istituti di ricerca sparsi nel mondo. Il risultato, secondo la Dott.ssa Jacques è che “attualmente X. fastidiosa è uno dei fitopatogeni di cui conosciamo più in assoluto. È stato il primo di cui abbiamo ottenuto il genoma, sappiamo come vive e come si propaga. Purtroppo la nostra sete di sapere non si è ancora placata per il semplice motivo che tutte le nostre conoscenze non sono ancora sufficienti per trovare una cura rapida ed efficace”.
“Una soluzione potrebbe arrivare dall’identificazione di un potente strumento di biocontrollo, come un virus batteriofago o altri batteri antagonisti” dichiara la Dott.ssa Giampetruzzi. Una pista che è in effetti in corso di analisi da parte del team della Dott.ssa Jacques ad Angers, mediante una tesi di dottorato cofinanziata da un partner industriale. Questa soluzione sarebbe complicata a livello di gestione ambientale, in quanto richiederebbe un monitoraggio costante della diffusione del batteriofago e misure di emergenza da intraprendere in caso di anomalie.
Il vero sogno, però, è quello di rendere gli ulivi stessi completamente immuni al batterio “Nel Salento a parte piccole nicchie ci sono solo due cultivar prevalenti, entrambe molto suscettibili: l’Ogliarola Salentina e la Cellina di Nardò. In tutta la Puglia non si superano le venti varietà, tra cui una detta “Leccino”. Le nostre osservazioni degli ultimi anni indicano che il Leccino è meno suscettibile a X. fastidiosa, cosa chiaramente osservabile nelle aree in cui sono presenti sia Leccino sia Ogliarola”, riporta il Dott. Boscia. La collega Dott.ssa Giampetruzzi continua: “Questo confronto, partito proprio da osservazioni sul campo, è stato confermato dalle analisi quantitative del batterio, che hanno mostrato una popolazione di batteri in Ogliarola cento volto maggiore di quella presente in Leccino. La quantificazione, accompagnata da un confronto dei profili trascrittomici delle due varietà suggerisce che il leccino sia in grado di innescare una risposta immunitaria più drastica di Ogliarola a un’infezione di X. fastidiosa, come abbiamo pubblicato nel 2016 [20]”. Questo in sé è già un risultato incoraggiante, anche se non sufficiente a contenere i danni di Xylella e bloccare la sua diffusione. Ma nel mondo, si contano almeno 1500 varietà di olivi, ognuno dei quali potrebbe rivelare caratteristiche di resistenza ancora maggiori. “Proprio per questo l’obiettivo attuale è analizzare e comparare il maggior numero possibile di varietà da tutto il mondo. Per questo, a fine dicembre 2017 è partito un progetto molto più ambizioso, detto Resixo e finanziato dalla regione Puglia e dal CNR, che intende valutare la suscettibilità/resistenza al batterio di centinaia di cultivar, mediante la tecnica dell’innesto su piante pugliesi infette. Il fine ultimo è quello di trovare “combinazioni vincenti” tra innesti di cultivar resistenti e tronchi di alberi monumentali già presenti in Salento, in modo da salvarli dal disseccamento e preservarne la produttività”.
Se lo sforzo verrà premiato, il merito sarà anche della società civile. “Tutti i nostri studi vengono condotti con il supporto di alcuni imprenditori “illuminati” che hanno deciso di investigare le piante nate spontaneamente nelle zone infette e che sembrano resistere meglio delle piante in loco” continua il Dott. Boscia. “Molti ettari e alberi secolari sono stati messi a nostra disposizione da privati per provare ad eseguire innesti tra le varie cultivar. Oltre alla Puglia, la rivista tedesca «Merum» con la collaborazione della rivista svizzera «Der Feinschmecker» ha sponsorizzato un crowdfunding che in poche settimane ha consentito di mettere a nostra disposizione una serra per questo tipo di studi”. Un esempio importante di sinergia tra la ricerca scientifica e il territorio per far fronte a un batterio tanto affascinante quanto nocivo.
Ringraziamenti e Approfondimenti
L’autrice ringrazia la Prof. Marie-Agnès Jacques Emersys (Emergence, Systematics and Ecology of plant pathogenic bacteria), Institut National de la Recherche Agronomique, Angers, Francia, e i Dott. Annalisa Giampetruzzi (Dipartimento di Scienze del Suolo della Pianta e degli Alimenti , Università degli Studi di Bari Aldo Moro, Associato con incarico di collaborazione al CNR di Bari) e Donato Boscia (Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante) per le loro testimonianze.
Per rimanere aggiornati sull’attualità riguardo l’avanzata di X. fastidiosa e della ricerca scientifica, seguire InfoXylella.
Per approfondire ulteriormente, consultare il lavoro di Purcell [21] per un Excursus storico sulla scoperta di X. fastidosa, e il lavoro di Bucci [22] per fare il punto sulle caratteristiche di questo patogeno e sul suo ciclo vitale.
![Figura 3 - Schema del ciclo vitale di Xylella fastidiosa nella pianta e nell’insetto. Adattato e tradotto da [22].](https://informa.airicerca.org/wp-content/uploads/sites/12/2019/09/figure3.png)
Figura 3 – Figura 3 – Schema del ciclo vitale di Xylella fastidiosa nella pianta e nell’insetto. Adattato e tradotto da [22].
Bibliografia
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Info sui Revisori di questo articolo
Damiano Martignago, PhD in fisiologia Vegetale, lavora come esperto di genome editing presso il CRAG – Centre for Research in Agricultural Genomics, Cambridge, (UK).
Federico Forneris, PhD in Biologia Molecolare e Strutturale, è professore associato presso l’Università di Pavia (IT).
Lemergenza si combatte:1- con la distruzione dei vettori allo stadio ninfale 2-con la ricerca di come “vaccinare” gli olivi e sviluppare in essi meccanismi autoimmuni.